Un articolo di Andrea Semplici ci aiuta a capire come nascono e si sviluppano le cose che in Italia funzianano. Lo scopo di FOOD Magazine.IT è quello di aiutare i giovani ad essere soci del tempo e di non volere necessariamente tutto e subito. Slow Food oggi è una grande industria che produce business e da lavoro suggerendo il “Buono, il Giusto, il Pulito”. Soprattutto, diciamolo, è ITALIA. Questo, per tutti noi di FOOD Magazine.IT è l’importante.
Il cuore di Slow Food batte nella provincia di Cuneo, “la granda”. La sede è a Bra, in via della Mendicità Istruita 14. Nelle sue varie articolazioni e con diversi inquadramenti Slow Food impiega circa 150 persone, mentre il giro di affari complessivo si avvicina ai 25 milioni di euro.
“Slow Food significa dare la giusta importanza al piacere legato al cibo, imparando a godere della diversità delle ricette e dei sapori, a riconoscere la varietà dei luoghi di produzione e degli artefici, a rispettare i ritmi delle stagioni e del convivio. Slow Food afferma la necessità dell’educazione del gusto come migliore difesa contro la cattiva qualità e le frodi e come strada maestra contro l’omologazione dei nostri pasti; opera per la salvaguardia delle cucine locali, delle produzioni tradizionali, delle specie vegetali e animali a rischio di estinzione; sostiene un nuovo modello di agricoltura, meno intensivo e più pulito”. Slow Food ha salvato dall’oblio centinaia di prodotti della tradizione. Fondato un’Università, una casa editrice e inventato il Salone del Gusto di Torino. Sotto il cappello di una onlus battono molti cuori. Che vanno Fast.
Slow Food sta in via della Mendicità Istruita a Bra, in provincia di Cuneo. Qui, in una stretta e bella via pedonale colonizzata dagli uffici di Slow Food, si intuisce la sua sorprendente grandiosità. La scenografia di Slow Food, a Bra, è una modesta casa di ringhiera. Carlin Petrini, 57 anni, leader carismatico (ha lasciato lo scorso anno la presidenza italiana del movimento, per occuparsi dell’associazione internazionale), inserito, nel 2004, fra gli “eroi del nostro tempo” dalla rivista Time, ha una stanza degna di un fattore di una bella tenuta delle Langhe. Mentre Roberto Burdese, 38 anni, l’erede di Carlin, da meno di un anno presidente di Slow Food Italia, divide il suo piccolo ufficio con la segretaria. Nei due piani della casa di ringhiera è un dedalo di stanze. Il popolo di Slow Food è una piccola moltitudine di ragazzi attorno ai trent’anni. Identikit: laurea e master in tasca, multilingue, tecnologici, appassionati e devoti. Per una buona metà sono piemontesi.
I braidesi sono ancora la folta maggioranza fra i dirigenti (Roberto Burdese è di Bra, ha cominciato a lavorare in Slow Food , 17 anni fa, come obiettore) e non hanno nessuna intenzione di lasciare il controllo dell’associazione. Anche se, per la prima volta, a dirigere Slow Food Promozione, cassaforte dell’associazione, è stato chiamato un manager esterno. L’altra metà di chi lavora qui viene da mezza Italia e dall’estero. E tenete presente che Bra è fra i luoghi più irraggiungibili d’Italia. 151 i dipendenti, 96 sono a tempo indeterminato. Primo stipendio: 1.149 euro lordi (930 netti) al mese. Salario di un dirigente: 2.450 euro. Salgo le scale della palazzina di ringhiera alle 8,30 del mattino e direi che sono tutti già chini sui loro computer. Penso ai numeri e alle storie di Slow Food (niente di segreto: sono sul loro sito internet): 83 mila soci (30 mila in Italia -tessera da 58 euro all’anno-, 14 mila negli Stati Uniti); 25 milioni di euro di fatturato, una doppia università -fra il triennio e il master- che è costata 24 milioni di euro (e ne costa 6 di gestione annuale), eventi stellari come il Salone del Gusto (lo spazio di uno stand più che minuscolo costava almeno 2500 euro) e Terra Madre (cinquemila contadini o loro rappresentanti atterrati a Torino lo scorso ottobre: un investimento da 6 milioni di euro, pagati dalla Regione Piemonte, dalla città di Torino, dai ministeri dell’Agricoltura e degli Esteri). E ancora: sedi in 7 Paesi (grande successo in Giappone), associati in 122.
- L’invenzione dei Presidi e del Salone del gusto.
Oggi, tra i simboli di successo di Slow Food ci sono i Presidi. “E pensare che ci avevano presi per matti -ricorda Pettini-. Il mercato, ci spiegavano, vuole la quantità, non c’è spazio per pochi snob del cibo. Bene, si sono sbagliati: avevamo ragione noi”. Chi si ricorda di Cibus, fiera parmigiana dell’agroalimentare? Oggi la vera fiera-mercato del cibo è il Salone del Gusto di Torino, creatura di Carlin. I Presidi sono stati, e sono, un formidabile meccanismo culturale ed economico. Che Slow Food cerca di governare senza vendere un solo salame. “È stata davvero un’operazione culturale -avverte Piero Sardo, 60 anni, presidente della Fondazione per la Biodiversità -. Noi non vendiamo. Diamo una mano a piccole realtà di contadini, facciamo promozione invitandoli ai nostri eventi, cerchiamo sponsor per ogni prodotto, mettiamo a punto disciplinari di produzione severi, ma non rigidi. Ma siamo un’associazione privata: non diamo nessun marchio, non controlliamo, non certifichiamo niente. Nessuno può mettere il simbolo della chiocciola sul suo prodotto”. Verissimo, ma altrettanto vero che i prezzi del fagiolo zolfino sono schizzati del 93% da quando questo poverissimo e buonissimo legume è stato inserito nella lista dei Presidi. E che per comprare molti dei prodotti presenti negli elenchi Slow Food ci vogliono portafogli ben forniti. “I Presidi sono stati la salvezza di molte colture che stavano scomparendo -dice Maria Grazia Mammuccini, amministratrice dell’Arsia, l’agenzia di sviluppo agricolo della Regione Toscana-. È altrettanto vero che vi sono stati rischi di effetti distorsivi sul mercato”. Come dire: il benemerito meccanismo dei Presidi ha anche innescato speculazioni e furbizie di commercianti poco Slow.
Petrini invece non ha confini: sa trovare sponsor, ha una rete di industriali amici (lui, vecchio estremista di sinistra), dialoga fraternamente (e con buoni risultati) con l’ex-ministro dell’agricoltura Alemanno (An) e la Regione Toscana (giunta di sinistra) sulle strategie anti-ogm, si trova d’accordo con l’ex-ministro Tremonti sulla fine delle ideologie liberiste, ottiene il via libera all’Università di Scienze Gastronomiche dall’ex-ministra Moratti e gran parte dei soldi per realizzarla sono della Regione Piemonte, allora governata dalla destra. Mentre l’ex ministro Mussi nicchia sulla piccole facoltà private compresa quella di agroecologia di Slow Food da aprire in Veneto.
Carlin Petrini contagiato dalla bella amicizia con l’intellettuale indiana Vandana Shiva, e con l’agroecologo cileno Miguel Altieri (cattedra a Berkeley), scrive “Buono, Pulito e Giusto”, fragile Bibbia italiana dell’ultima mutazione di Slow Food. Poi, lo scorso ottobre, a Torino per Terra Madre, arrivano, grazie a una rete capillare e impressionante di sponsor, non solo i contadini, ma tutti gli attori della filiera del cibo. Sono, secondo Slow Food , 1600 comunità del cibo. “Il pianeta Terra sta correndo rischi terribili -spiega Petrini-. E la responsabilità di questa devastazione è attribuita al 70% alla produzione di cibo. Il mercato non salverà questo mondo: è un meccanismo obsoleto, incapace di trovare soluzioni alle crisi ambientali e sociali. Bisogna fare il possibile per invertire questa corsa verso il baratro”. Possono dare una mano a farlo tutti coloro che hanno a che fare con la produzione, il trasporto, la trasformazione, il consumo del cibo.
Infine, prendete fiato e toglietevi un’illusione: non crediate che Slow Food sia slow. Per tenere in piedi tutto questa macchina imponente, bisogna andare molto fast. Troppo, forse. Gli uffici di Bra sono una frenesia quasi adrenalinica. Solo “i vecchi” sembrano ricordarsi che il piacere è la molla fondante di Slow Food e non rinuncerebbero per nulla al mondo all’aperitivo serale da Converso, ma la banda dei ragazzi di via della Mendicità Istruita non ha tempo. Lavorano, con passione, dieci e più ore al giorno. E io sono riuscito a vedere Carlin Petrini (irraggiungibile per quasi un mese) solo perché si era rotto un piede e, almeno per mezza giornata, doveva stare fermo. I 40 minuti di colloquio sono stati una baraonda (altro che intervista): Carlin riusciva a dare ascolto alle mie domande mentre al telefono aveva uno dei migliori cuochi di Francia, e poi c’era il suo capoufficio stampa che gli spiegava i programmi della giornata, una giapponese stava fremendo su una sedia per parlargli e, alla fine, è arrivato anche Roberto Burdese per una microriunione. Poi con il piede rotto, Carlin se ne è partito per Nizza: seminario interno di Slow Food . Insomma, sembra proprio che il mondo non si cambi con la lentezza.