La dieta mediterranea, Patrimonio Immateriale dell’Umanità, allunga la vita, regala benessere e aumenta il tasso di felicità. Perché non è solo un modello alimentare fatto di stagionalità, tipicità e biodiversità. Che già sarebbe molto. Ma è un modo di vivere bello e buono, che rimette in equilibrio l’ambiente e lo sviluppo. Si spiega anche così la nuova fortuna delle cucine del Sud europeo. Snobbate nei decenni scorsi perché retaggio di povertà calorica ed economica. Rivalutate oggi, perché simbolo alimentare di una nuova idea di sviluppo sostenibile che affonda le sue radici nel passato delle comunità che si affacciano sulle sponde del Mediterraneo. Una sorta di abbondanza frugale che, secondo studiosi come Serge Latouche, Alain Caillé, Andrea Segrè, economisti come Loretta Napoleoni, Jean Paul Fitoussi, Joseph Stiglitz e pensatori come Carlo Petrini, è la sola ricetta in grado di riparare i danni prodotti dalla bulimia del consumo per il consumo.
E così al tempo della sharing society questo modo di vivere ex povero si prende una rivincita con le sue pratiche virtuose e la sua filosofia ecosostenibile. In fondo si tratta di una sharing diet, una dieta della condivisione che viene da molto lontano. Fortemente locale eppure mai autarchica. Nata da una fitta rete di scambi e prestiti, contaminazioni, ibridazioni. Insomma, l’opposto di certa ideologia del chilometro zero.
È come se oggi la salute del nostro corpo fosse diventata la cartina di tornasole della salute del pianeta. E viceversa. Ecco perché abolire «il troppo e il vano» dai nostri piatti ritornando, per quanto è possibile, alle sane abitudini di un tempo, riflette un rapporto rinnovato con i nostri bisogni e desideri. Ma anche una nuova responsabilità verso gli altri, verso la natura e verso le specie viventi.
Così la dieta torna, almeno in parte, ad assumere il significato che aveva nel mondo classico. Per i Greci “diaita” significava, infatti, regola, forma di vita. Insomma non un semplice modo di mangiare ma, piuttosto, un’arte di vivere, o come diremmo oggi, uno stile di vita. Lo dice l’etimologia stessa del termine diaita – da cui il nostro «dieta» che designa, in generale, una regola di condotta che non ha necessariamente per oggetto il cibo, ma serve a dare misura a molte forme di comportamento. Ed è particolarmente utile riflettere sui sinonimi di diaita, che ha tra i suoi significati quello di «tenore di vita», inteso come l’oscillazione tra la sobrietà e l’opulenza.
Dalla letteratura antica traspare in filigrana anche un’idea della dieta come spazio, come luogo metaforicamente inteso. Dimensione dove si svolgono le pratiche abituali dell’uomo. In questo senso appare illuminante l’uso che Aristofane e Plutarco fanno del termine, usandolo come sinonimo di dimora, casa, alloggio, residenza. Anteo addirittura si spinge fino a definirla una stanza semovente come la cabina di una nave. Insomma il luogo dal quale si governano le nostre condotte. E anche per Plinio il Giovane e Svetonio la parola latina diaeta significa appartamento, stanza, padiglione. Un’accezione del termine che lo avvicina di fatto a quell’accostamento concettuale, esplorato dal grande filosofo tedesco Martin Heidegger, fra l’abitare, le abitudini e l’habitat. In fondo la dieta, in quanto forma di vita, è proprio un equilibrio collettivo e stratificato nel tempo tra modi dell’avere e dell’essere. Cioè un modo particolare di abitare la terra.
Un uso ulteriore del verbo greco diaitao, nel senso di prescrivere una dieta, allarga il campo dei significati della nozione fino a quello di governare, giudicare, esaminare, discutere.
E’ questa la differenza con l’idea di dieta che si è diffusa nel mondo contemporaneo, che per lo più si risolve in un controllo meramente quantitativo delle calorie, del peso e delle misure. In una sorta di medicalizzazione di un fenomeno ricco e complesso come l’alimentazione umana. Laddove i Greci parlano di vita, noi riduciamo tutto al girovita. E mentre il verbo greco diaitao, proprio come l’italiano dietare, è un transitivo attivo, per cui qualcuno prescrive un regime alimentare a qualcun altro, il nostro modo di declinarlo è diventato riflessivo. Così dall’antico dietare, siamo passati al «dietarsi», che somiglia fin troppo a vietarsi.
Paradossalmente, nell’epoca dell’abbondanza siamo diventati punitori di noi stessi. Ecco perché le privazioni che ci infliggiamo per avere il ventre piatto e gli addominali a tartaruga spesso non producono altro se non frustrazione e depressione, anoressia e bulimia.
Per non parlare delle moltitudini prigioniere di quella nuova malattia che va sotto il nome di ortoressia (da orthos, che in greco significa «giusto» e orexis che significa «appetito»). Vale a dire l’ossessione di mangiare solo cose che non fanno male. O presunte tali. Forse in questo caso la salute ci guadagna, ma a scapito della nostra grande cultura gastronomica. Che ha inventato capolavori assoluti come la mortadella di Bologna, il culatello di Zibello, la cotoletta alla milanese, i vincisgrassi marchigiani, la trippa alla fiorentina, gli spaghetti alla carbonara romani, il porceddu sardo, la cassata siciliana, il babà napoletano e molto altro ancora. Cibi che per i nostri nonni erano dei sogni, per gli integralisti delle diete sono diventati degli incubi. I nuovi demoni da esorcizzare. Questo atteggiamento estremista nulla ha a che vedere con la diaìta dei Greci e con la loro erede, la dieta mediterranea che le grandi agenzie internazionali indicano come stile di vita virtuoso.
Corsi e ricorsi della storia. L’antica sobrietà della triade alimentare basata su olio, grano e vino, elementi sacri alle divinità del Mediterraneo antico e in seguito fatta propria dal cristianesimo, diventa oggi il simbolo di una moderna assunzione di responsabilità da parte del cittadino globale. E quel che sembra un ritorno al passato si fa annuncio di futuro.
Oltretutto la dieta mediterranea, dichiarata patrimonio dell’umanità dal 2010, allunga la vita e consente di dare alla longevità un’accezione non solo quantitativa.
Fonte Taccuinigastronomici