Otranto: chi ci racconta le cose belle e buone del passato? la Tradizione, con i suoi canti, i suoi suoni, le ninne nanne, le litanie, i racconti e con la Tavola, attraverso il sostentamento che la Terra ci offre e che, sapientemente lavorato, è amore che diventa cibo. E’ proprio qui, in Tavola, che si rievoca ogni anno una meravigliosa trazione che la pietà popolare della Comunità Cristiana rinnova in occasione della Festa di San Giuseppe, Padre putativo di Gesù di Nazareth. Una tradizione spettacolare per organizzazione, colori e sapori che prende il nome di “I tredici piatti di San Giuseppe” che l’IPSSEOA di Otranto, la Scuola Turistico Alberghiera, sublima grazie alla sua nota disciplina.
“I tredici piatti di San Giuseppe” possono definirsi un esempio di convivialità mediterranea composta da cibi altamente simbolici alla base del modello alimentare del territorio, espressione di antica “civiltà” contadina e dunque ricca di quella povertà divenuta nota nel mondo con il termine di “Dieta Mediterranea” oggi riconosciuta dall’UNESCO Patrimonio Immateriale dell’Umanità.
Il giorno in cui a Otranto si festeggiano i TREDICI PIATTI DI SAN GIUSEPPE (19 Marzo ndr) è anche il migliore per entrare nel cuore della collaborazione tra IPSSEOA di Otranto (Dirigente Scolastico il Prof. Luigi Martano) e l’EXPO MONDIALE DELLA DIETA MEDITERRANEA 2016 (Capofila la Fondazione “Paolo di Tarso”), il primo “Expo Diffuso e Sostenibile” ideato per promuovere la Dieta Mediterranea e lo stile di vita dei Popoli del Mezzogiorno d’Italia (Puglia, Campania, Basilicata, Calabria, Sicilia). Un’idea innovativa e intelligente per offrire l’opportunità alle Nazioni di scoprire, direttamente nelle terre ove la Dieta Mediterranea si è sedimentata nei secoli, le meraviglie del Mezzogiorno d’Italia le cui tradizioni alimentari rappresentano il vero volano delle nuove economie.
Ricostruiamo la tradizione dei “tredici piatti di San Giuseppe” elencando i componenti della fatidica tavola che con devozione e tradizione vengono esposti durante le festività. I piatti, che ritraggono i classici cibi poveri di una volta, sono arricchite di importanti informazioni nutrizionali. Il tutto grazie al contributo del Prof. Salvatore D’Onofrio noto Antropologo, Professore associato di Antropologia culturale presso la Facoltà di Scienze della Formazione dell’Università degli Studi di Lecce.
IL CIBO DEL TREDICI PIATTI DI SAN GIUSEPPE
Pampasciùn (lampascioni): devono essere trattati a lungo prima della cottura con acqua, sale e aceto perché sono molto amari. Devono essere serviti lessati e conditi con olio e pepe. Si accorda molto bene con il culto della povertà che spiega molto bene, seppur in parte, l’ ideologia di questa festa. Il lampascione è ricco di amido, fibre solubili, acqua, ma soprattutto di sali minerali come il fosforo, calcio, magnesio, potassio, manganese, sodio, fluoro e zolfo. Diuretico e lassativo, stimola l’appetito e attiva la digestione. Il lampascione è anche dotato di un buon potere antinfiammatorio a livello della vescica e intestino. Cotto in acqua e condito con aceto e sale diventa un piatto povero di grassi.
Li fai cu lla sarda (fave a purè con la sarda): un purè di fave secche con in cima una o più sardine fritte ( le fave hanno costituito, con il grano, la base alimentare primaria della popolazione del Salento) e condite con pepe macinato e olio. Le fave secche sono ricche di proteine, carboidrati e niacina. In questo piatto si arricchiscono anche di grassi dati dal fritto delle sardine che, tuttavia, ci forniscono i preziosi acidi grassi omega 3.
Li mùgnuli o cauli e ffiuri (i cavolfiori con il pepe): interi lessati e “sittat” conditi con olio e pepe oppure fritti in pastella ( in questo caso prendono il nome di pittule). Il cavolfiore è una miniera di vitamina C, selenio e fosforo. E’ facilmente digeribile se viene cotto al vapore e condito con poco olio. Ha proprietà diuretiche, lassative e soprattutto anticancerogene.
Cicir e fasul (ceci e fagioli): entrambi con baccalai frittu (baccalà fritto) posti anche essi in cima al piatto conditi con olio e pepe macinato. I fagioli e i ceci si meritano l’appellativo di “carne dei poveri” per la loro ricchezza di proteine. Fonte proteica è anche il baccalà che li accompagna in questo piatto, assieme all’olio d’oliva: preziosa fonte di acidi grassi essenziali e antiossidanti naturali.
Stoccapesci a ssuc russ e risu (baccalà con sugo rosso e riso): stoccafisso, fritto e cucinato al sugo. Lo stoccafisso è ricco di Sali minerali come il sodio, potassio calcio, fosforo, magnesio e selenio. Ha un buon tenore di proteine ed è povero di grassi (che aumentano però se è fritto). Il riso è invece ricco di proteine, è presente solo in alcune tavole dei 13 piatti.
La massa (tagliatelle): una sorta di lasagna che alla fine di una speciale preparazione ingloberà ceci, olio cotto ( oliu fattu) lungamente per “appesantire il piatto“, cipolla scalogna, prezzemolo, cannella e pepe nero. “a S. Giseppu cci piaci manciari pisanti”. La massa si può consumare calda o il giorno successivo alla cottura, dopo averla fatta “ confessare” o “scarfata” ovvero ripassata. Queste lasagne si presentano ammassate – da qui il nome di “massa”- sicchè le si dovrebbe mangiare con forchetta e cucchiaio. Questo piatto è “pisante ” perché fornisce principalmente grassi e carboidrati che insieme alla fibra data dai ceci lo rende poco digeribile e molto energetico.
Maccarrun cu la muddica ti lu pani e lu meli (Maccheroni con mollica e miele): questo piatto di pasta è preparato soltanto in quest’ occasione ed è composto da maccheroni conditi con miele e mollica di pane fritta ( la mollica di pane sostituisce il formaggio). Questo piatto vede l’amido , fornito dai maccheroni, arricchirsi di grassi vegetali dati dall’olio usato per friggere la mollica di pane, e di zuccheri semplici caratteristici del miele. Il miele, inoltre, è ricco di Sali minerali, enzimi, fosfati e vitamine. Attenua le irritazioni della gola, combatte le fermentazioni intestinali ed è un ricostituente.
Le carteddate (cartellate): dolci tipici di Natale che soltanto per S. Giuseppe vengono rifatti a marzo. Sono strisce di pasta tagliate a sega che dopo la frittura si intridono con miele. Li zzeppùli (zeppole) ovvero pasta di bignè a forma di ciambelline fritte oppure al forno, con crema e amarena sono invece solo di recente introduzione nella tradizione culinaria. Negli ingredienti di questi dolci popolani troviamo molta farina e poco zucchero e uova, quest’ultimi preziosi per la povera gente. A questa mancanza si sopperisce però col modo di cottura, la frittura, e l’aggiunta di miele e quindi di grassi e zuccheri semplici.
La tavola prevede ancora tanti pani devozionali a forma di ciambella (il pan di San Giuseppe) tanti quanti sono i santi e qualcuno in più per i visitatori. I pani sono lisci o intaccati con i simboli dei Santi ( il giglio, la corona, il bastone,il rosario, tre piccoli pani accostati come simbolo di pace). Il pane, alimento principale della nostra tavola, è ottenuto con farina, acqua, lievito e sale. Nell’impasto dei ” pani speciali ” vengono aggiunti altri ingredienti come l’ olio d’oliva, burro, latte, strutto e spezie. Fonte principale di amido, il pane contiene anche discrete quantità di fosforo e calcio.
Dentro una ciambella in genere sono poste un’ arancia ed un finocchio. L’ arancia è ricca di vitamina C (100 grammi di arancia ne contiene il 90% della razione quotidiana),sali minerali (bromo) ed olii essenziali (buccia): è antiscorbutico, antiossidante, antiffettivo e antianemico. Il finocchio ha un bassissimo apporto calorico e viene utilizzato come antispasmodico intestinale dando sollievo agli spasmi intestinali ed aiutando ad espellere i gas. Contiene inoltre “fitoestrogeni” utili nelle terapie di alcuni disturbi femminili come la menopausa.
All’ inizio del pasto viene data un’ insalata di lattuga e verrebbe reclamata dallo stesso S. Giuseppe. La lattuga è un ortaggio dal sapore fresco e delicato. Si può consumare sia cruda che cotta. Ha azione rinfrescante e digestiva, è ricca di vitamina A e C, Sali minerali quali il potassio, ferro e fosforo. Ha pochissime calorie e molta fibra.
A parte, o posta più spesso dentro una ciambella di pane, troviamo una bottiglia di vino che può figurare anche all’inizio del pasto accanto ai pampasciuni o accanto al finocchio e arancia. L’esclusione di carne, uova, latticini e formaggi trova giustificazioni nel calendario religioso e nella devozione dei fedeli: S. Giuseppe si festeggia sempre in periodo quaresimale, durante il quale tradizionalmente ci si astiene da questi cibi, non “si ncàmmira.”. A questo tabù alimentare si accompagna l’assenza di alcune verdure di stagione ( carciofi, sedani o cicorie) e l’esclusione di primizie. Si privilegiano, piuttosto che le primizie, alimenti a lunga conservazione di sostegno permanente nel mondo contadino: prodotti della trasformazione del grano, legumi, olio, vino, pesce e verdure di uso comune come cavoli o pampasciuni. A cura di prof. Salvatore D’ Onofrio
L’UOMO E IL CIBO
L’uomo soddisfa l’universale biologico della nutrizione in modo non dissimile dagli altri mammiferi. Nella ricerca come nella selezione, nella preparazione come nel consumo dei cibi, egli attiva un’attrezzatura sensoriale capace di regolare il rapporto tra l’interno e l’esterno del corpo, adattandolo ai ritmi fisiologici e stagionali, facendo leva su apparati percettivi (olfatto, gusto, tatto) condivisi con il resto del mondo animale. Soltanto l’uomo possiede però quel dispositivo simbolico che lo obbliga a trasformare i cibi in cose “ buone da pensare ” oltre che da mangiare. L’uomo è cioè qualche cosa di più di ciò che mangia, dal momento che dà ai cibi forma e valore.
Di questo carattere bi-planare dei cibi il pane è senza dubbio, nelle culture cerealicole europee, il prodotto più emblematico: alimento quotidiano ma anche segno, come testimonia il fatto che in molti luoghi non lo si possa rovesciare sulla tavola (sarebbe come mettere a testa in giù una persona) o come testimoniano le variazioni che ai pani festivi fanno subire le massaie soprattutto nella forma e nella decorazione. A questo proposito, i pani sardi, quelli pasquali in Sicilia o quelli di San Giuseppe in Puglia costituiscono in Italia un repertorio tra i più significativi.
I fatti alimentari sono, in altri termini, parte integrante di quell’universo simbolico che non soltanto ci fa unici tra gli altri animali, ma è anche all’origine della varietà culturale che ci caratterizza come specie. Ciascun gruppo etnico definisce la propria identità in rapporto ai cibi che costituiscono la sua base alimentare primaria (nelle culture mediterranee, dunque, i prodotti del grano), ma anche in rapporto a cibi speciali che ribadiscono i rapporti sociali e i ritmi del vivere quotidiano interrompendoli periodicamente in modo rituale. In quest’ultimo caso, si tratta essenzialmente di cibi cerimoniali poveri o, al contrario, particolarmente elaborati e abbondanti fino allo spreco, oppure di modalità di consumo inusuali, tra cui forme complesse di digiuno e persino di astensione. Segni tangibili di diversità culturale, che si esprime primariamente a livello delle qualità sensibili – la percezione visiva, i profumi, i sapori – i sistemi alimentari costituiscono altrettante frontiere tra le diverse epoche storiche, un criterio utile a distinguere le comunità che vivono di caccia e raccolta da quelle che praticano l’agricoltura, tra pitta e campagna, tra gruppi sociali. La stessa separazione (ma anche il rapporto) tra il mondo dei vivi e quello dei morti è quasi sempre garantito dalla circolazione di cibi: quelli consumati nei giorni del lutto, quelli offerti periodicamente dai vivi o deposti nelle tombe per accompagnare il viaggio dei morti, ma anche i cibi donati da questi ultimi ai vivi, soprattutto ai bambini.
Da un altro punto di vista i cibi invece accomunano più di quanto non separino. Se è vero infatti che essi riflettono modi di essere originali e identificanti dei vari gruppi umani, sottolineandone la dipendenza dalla varietà degli ambienti geografici e dalla diversità delle materie prime, è vero anche che soprattutto la loro preparazione mostra dovunque e in ogni tempo l’azione delle stesse regole logiche. Un esempio emblematico è rappresentato dai menu. A dispetto delle diverse tradizioni nazionali, essi si fondano tutti sulla combinazione di un duplice asse: orizzontale (in Italia, per esempio, la scelta all’interno dei primi piatti e dei secondi con l’aggiunta dei contorni) e verticale (la successione delle pietanze); altri possibili esempi sono quelli della opposizione dolce/salato o del piatto unico: benché diano luogo nelle diverse culture alle combinazioni più varie, quest’opposizione e questa modalità di consumo marcano in modo riconoscibile tutti i sistemi culinari; la grande varietà delle preparazioni carnee può essere infine ricondotta, da un punto di vista logico, soltanto a tre categorie universali: crudo, cotto, putrido, cui corrispondono le tre modalità di cottura più diffuse: l’arrosto, l’affumicato (sostituito in alcune culture dall’essiccato), il bollito. Ad esse è possibile aggiungere soltanto due altre modalità: la frittura e la marinatura, che risultano rispettivamente dall’uso di grassi (vegetali come l’olio o animali come il burro) o di acidi (come il limone o l’aceto).
È dall’analisi del rapporto tra queste categorie universali e la dimensione locale del cibo che gli uomini potranno imparare non soltanto a riconoscere, nello spazio come nel tempo, la diversità alimentare, ma anche a rispettarla e persino ad integrarla nel proprio orizzonte culturale.
SALVATORE D’ONOFRIO
E’ Professore associato di Antropologia culturale presso la Facoltà di Scienze della Formazione dell’Università degli Studi di Lecce.
E’ titolare di un DEA in Ethnologie et Anthropologie presso l’EHESS Parigi.
E’ titolare di un Dottorato di Ricerca in Etno-Antropologia ottenuto nel 1987.
E’ chercheur associé presso il Laboratoire d’Anthropologie Sociale di Parigi.
Ha svolto studi e numerose ricerche in Italia e all’estero (Paraguay).
Ha svolto attività di insegnamento presso enti di formazione e ricerca.
Ha collaborato come membro di comitati edoriali a varie riviste.